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Negli anni passati a scuola ho sentito una miriade di volte dire che un lavoro, uno spettacolo per essere più precisi, è da considerarsi “finito” dopo circa 2 anni e/o circa 200 repliche (più o meno credo di ricordare che il numero sia quello, di sicuro conteneva il numero 2).
La cosa ,ovviamente, si può allargare a qualunque tipo di lavoro che non sia relegato alla creazione di un oggetto fisico e tangibile, perché lì la risposta sarebbe semplice: quando l’oggetto in questione è concluso e funzionante, punto.
Tralasciando il fatto del centinaio di repliche all’anno (il che non sarebbe affatto male) la domanda che mi sorge inevitabile è la seguente: ma come faccio a considerare un lavoro, uno spettacolo, finito, finito per davvero? Come posso considerarlo perfetto, senza bisogno di modifiche o rivisitazioni?
In questi giorni caldissimi di luglio siamo chiusi in sala prove a modificare, cucire e ricucire gli spettacoli che hanno debuttato nel corso di quest’anno. Non lo facciamo per puro masochismo, ma perché avvertiamo la necessità di migliorare quello che abbiamo creato, renderlo più fluido, più organico e interessante, forse non ne siamo soddisfatti al cento per cento. E questo è un bene: è normale riprendere in mano uno spettacolo e rovesciarlo come un calzino, è parte del lavoro, ma comincio a chiedermi dove sia la fine, dov’è quel maledetto nastro rosso da tagliare che scatena l’applauso e i sorrisoni degli astanti.
Vorrei qui provare a sondare il limite, là dove il limite sembra essere molto vago (forse inizio a percepire un impellente bisogno di vacanze).
Bisognerebbe avere un libro di istruzioni sul quando un lavoro è finito e come esserne pienamente soddisfatti, un libro come quelli che c’erano anni fa, dove dovevi risolvere i vari enigmi saltando le pagine e se morivi (ad opera di un coniglio assassino saltato fuori inaspettatamente da dietro l’angolo) potevi ritornare indietro. Ok, sei arrivato fin qui, sei morto, ma puoi sempre tornare a pagina 19 e riprendere da lì, in una serie di tentativi che ti portano inevitabilmente all’ultima pagina dalla quale esci per forza vincitore indiscusso. Ecco, questo sarebbe davvero utile!
Ma una soluzione del genere aprirebbe un’inevitabile e infinita quantità di digressioni, per cui restringiamo il campo.
Quando finisce un lavoro?
- quando posso dire di sentirmi soddisfatto (parti del mio cervello stanno già viaggiando su un’altra infinita lista dal titolo “che cos’è la soddisfazione?”)
- quando posso “respirarlo” completamente, dall’inizio alla fine
- quando riesco a trovare il modo infallibile per gestire la respirazione che mi permette di arrivare in fondo allo spettacolo con abbastanza fiato da fare almeno un inchino decente (forse dovrei smettere di fumare)
- quando ti rende fiero di averlo creato
- quando conosco ogni microscopico elemento che lo compone
- quando, nel raccontarlo ad un amico che ancora non l’ha visto, mi emoziono parlandone
- quando tutti (tutti!) ci trovano, guardandolo, una parte di sé
- quando ti fa vincere l’Ubu o l’Oscar
- (versione ridimensionata) quando ti fa incassare abbastanza soldi e poter finalmente dire “Anch’io sono un attore vero”
…momento di riflessione…
- è finito quando non ha più niente da dirmi
- è finito quando mi annoia
- quando mi decido a mettere il punto.
Mi fermo. Respiro.
Se arrivo davvero a considerare un lavoro “finito”, se davvero arrivo a sondarne ogni momento, come faccio a farci stare dentro la vita che anima questo lavoro?
Poi mi torna in mente che il teatro è “qui e ora”, che è continuamente in divenire, che è un po’ come dire che non sarà mai e poi mai da considerarsi finito. E per fortuna, finito è sinonimo di lavoro morto, prosciugato, che non ha più niente da dare, qualsiasi declinazione si voglia dare a questa parola.
Conscio di questo, sorrido e torno a provare, le vacanze sono sempre più vicine!
Marco Gottardello
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